Il bosco cresce, ma non si taglia legno risorsa sotto utilizzata.

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Pubblicazione: 19 febbraio 2019

Milano L a via fossile scelta dal presidente Usa Donald Trump non è l’unica possibile per arrivare all’autonomia energetica. L’Italia, povera di gas e petrolio, potrebbe in parte soddisfare il suo fabbisogno di energia termica puntando sul legno, con ricadute positive in termini economici e occupazionali. Le basi ci sono tutte, a partire da una superficie forestale in continua espansione ma in gran parte non gestita, a cui si aggiunge un comparto di produttori di combustibile legnoso e di stufe e caldaie pronto a supportare questo cambio di rotta.

Il Consiglio per la ricerca in agricoltura parla di una «situazione paradossale», in cui a un aumento della superficie boscata (+28% tra il 1985 e il 2015) corrisponde una diminuzione di prelievo del legno. «Nonostante una disponibilità di biomassa forestale potenzialmente utilizzabile di 38,4 milioni di metri cubi all’anno, la quantità di legname utilizzato nel 2015 è stata intorno ai 5,5 milioni di metri cubi, che corrisponde a circa l’11% in meno rispetto al 2014», spiegano i ricercatori nell’ultimo rapporto, mettendo in evidenza come le foreste e la loro gestione attiva possano fornire «mezzi, risorse e materiali essenziali per lo sviluppo di economie e filiere locali a basse emissioni». Un recente studio dell’Agenzia energetica austriaca ha messo a confronto gli effetti economici dell’uso di fonti fossili e biomasse del territorio nell’area di Hartberg, sud-est del Paese, dove con il legno si copre il 47% del fabbisogno di calore.

La ricerca mostra che, mentre i combustibili fossili creano occupazione solo presso il consumatore finale (20 ore di lavoro per terajoule all’anno per il gasolio e 10 per il gas naturale), le biomasse legnose locali generano valore in tutte le fasi.

La produzione di legna e cippato, compreso il trasporto ai consumatori, genera 118 ore di lavoro per terajoule ogni anno, mentre il risultato migliore in termini occupazionali si raggiunge con la presenza di una segheria regionale con valorizzazione a cascata del legno per produrre pellet, situazione in cui si arriva a 217 ore di lavoro. «In media le filiere bioenergetiche, basate su materia prima legnosa locale, creano 7,5 volte più occupazione rispetto al gasolio e ben 15 volte più occupazione rispetto ai combustibili fossili gassosi», sottolinea il direttore tecnico di Aiel, l’associazione italiana delle energie agroforestali, Valter Francescato.

Un modello che potrebbe essere applicato anche in Italia, dove l’industria del comparto legno-energia è strutturata per rispondere a una domanda crescente. Solo i numeri dei soci Aiel (500 in tutto), parlano di 150 produttori e distributori di legna, cippato e pellet, 60 costruttori di sistemi di riscaldamento e cogenerazione, 250 progettisti, installatori e manutentori. Con fatturati importanti: le aziende che producono biocombustibili hanno registrato nel 2016 un giro d’affari di 800 milioni di euro, mentre le imprese che realizzano tecnologie per il riscaldamento e la cogenerazione l’anno scorso hanno fatturato circa 900 milioni di euro, per un totale di 300 mila apparecchi venduti. E per far fronte a una domanda sempre più esigente, per il futuro Aiel punta a promuovere le tecnologie a basse emissioni e alti rendimenti: «Le imprese del settore hanno realizzato il sistema di certificazione volontario Aria pulita, che classifica le prestazioni ambientali degli apparecchi domestici a legna e pellet e le aziende produttrici di pellet nostre associate sono tutte certificate secondo lo standard internazionale Enplus, che garantisce al consumatore un prodotto sostenibile e di alta qualità». Il paradosso è che ad un aumento della superficie boscata (+28% tra il 1985 e il 2015) corrisponde una diminuzione di prelievo del legno.