Per fare un Bitcoin ci vuole così tanta energia che vale oro

Bitcoin
Pubblicazione: 7 novembre 2018

Per fare un Bitcoin ci vuole così tanta energia che vale oro

7 novembre 2018 | Redazione QualEnergia.it

La blockchain consuma molta, troppa energia, perfino più di quella richiesta per estrarre alcuni metalli
dai giacimenti minerari.
A questa conclusione è giunto un recente studio, pubblicato su Nature Sustainability (Quantification of
energy and carbon costs for mining cryptocurrencies, qui un estratto), in cui gli autori evidenziano
l’enorme dispendio energetico dei processi informatici che regolano gli scambi delle principali cripto
valute, ad esempio i Bitcoin.
Bitcoin, Ethereum, Litecoin e Monero sono le quattro valute virtuali esaminate nel documento: tutte
impiegano la tecnologia blockchain per convalidare le transazioni su un registro digitale “a catena di
blocchi”, attraverso un incessante lavoro di “mining” che consente, letteralmente, di estrarre nuova
moneta (vedi QualEnergia.it per approfondire cos’è e come funziona la blockchain).
Il punto, osserva lo studio, è che per generare l’equivalente di un dollaro in cripto valute, si utilizza una
quantità di energia superiore a quella che serve per ricavare lo stesso valore di mercato (un dollaro)
estraendo un metallo prezioso dal sottosuolo.
Difatti, sostengono gli autori, l’energia necessaria a ottenere un dollaro in Bitcoin è circa 17 mega joule
(MJ) contro rispettivamente 4, 5 e 7 MJ che si devono consumare in media per creare un valore di
mercato equivalente (1 $) in argento, oro e platino con le attività minerarie convenzionali.
Non vanno molto meglio le altre cripto valute, perché si parla di 7-14 MJ “bruciati” mediamente dalla
tecnologia blockchain, avendo sempre come riferimento un dollaro di valore generato.
Le stime riguardano il periodo dal primo gennaio 2016 al 30 giugno 2018.
Solo l’estrazione dell’alluminio consuma ancora più energia: 22 MJ secondo i dati riferiti dallo studio.
Torniamo così alla principale critica cui si espongono le reti digitali interconnesse: il consumo
elevatissimo di elettricità, dovuto alla notevole potenza di calcolo richiesta per garantire la sicurezza
delle operazioni effettuate su queste reti, attraverso sistemi di verifica proof-of-work (prova di lavoro).
Una blockchain può essere considerata “sostenibile” sotto il profilo ambientale?
La domanda è pertinente, soprattutto quando si pensa ai tanti progetti in corso per applicare la blockchain
ai settori tradizionalmente gestiti dalle utility dell’energia, quindi ad esempio per sviluppare reti diffuse di
utenti attivi che autoproducono e vendono kilowattora fotovoltaici.
Lo studio ha stimato in almeno 3-15 milioni di tonnellate la CO2 emessa dalle attività di mining per le
quattro monete virtuali in due anni e mezzo (1 gennaio 2016-30 giugno 2018), di cui la maggior parte è da
attribuire ai Bitcoin.
Per realizzare blockchain più “pulite” a minore impatto ambientale, ci sono diverse possibilità: tra queste,
spostare i centri di calcolo in regioni con abbondante energia rinnovabile a basso costo (in Islanda ad
esempio), oppure adottare sistemi più semplici per il controllo e la convalida delle transazioni, come
quelli denominati proof-of-authority (prova di autorità, vedi anche la nostra intervista a Colleen Metelitsa di
GTM Research).