La corsa all’auto elettrica – e forse persino gli obiettivi di decarbonizzazione – rischiano di schiantarsi contro il muro della mancanza di materie prime, come il litio, il cobalto o il nickel.
E ad accusare i danni maggiori potrebbe essere l’Europa, che nella filiera delle batterie oggi non solo deve confrontarsi con lo strapotere della Cina, ma anche vincere la crescente competizione degli Stati Uniti, sempre più attraenti per gli investitori grazie ai generosi incentivi offerti dall’Inflation Reduction Act (Ira).
A riaccendere i riflettori su sfide già note, ma che a dispetto degli sforzi prodigati negli ultimi anni sembrano complicarsi, sono due studi appena pubblicati.
Il primo è un report firmato da Benchmark Mineral Intelligence (Bmi), che mette in luce la necessità di un’ulteriore forte accelerazione degli investimenti – soprattutto nell’estrazione di metalli – senza la quale sarà impossibile soddisfare l’enorme domanda di veicoli elettrici attesa (o meglio “auspicata”) nel mondo nei prossimi anni: per soddisfare la necessità di batterie serviranno almeno altri 514 miliardi di dollari entro il 2030, di cui 220 miliardi solo per sviluppare la produzione di metalli, stima la società specializzata,considerata tra le più autorevoli in questa nicchia di ricerca.
Il secondo studio, che ci tocca più da vicino, è una relazione speciale della Corte dei conti europea, che facendo il punto sulle strategie Ue nel settore delle batterie evidenzia ostacoli crescenti, legati in gran parte – anche se non esclusivamente – alla «maggiore incertezza relativa alla sicurezza degli approvvigionamenti delle materie prime necessarie».
Gli auditor della Ue avvertono che l’obiettivo di vendere solo auto a emissioni zero dal 2035 – un tassello cruciale del piano per la neutralità climatica – potrebbe fallire «a causa dell’insufficiente capacità di produzione di batterie», oppure essere «raggiunto per lo più grazie a batterie o veicoli elettrici importati, a discapito della catena del valore delle batterie europea e dei relativi posti di lavoro» (Bruxelles prevedeva almeno 800mila nuove assunzioni e un giro d’affari da 250 miliardi l’anno).
La mancanza di materiali è un punto dolente. Nonostante Bruxelles fin dal 2008 abbia adottato iniziative per favorire una maggiore autosufficienza e diversificazione, osserva la Relazione, «la Ue continua a dipendere in larga misura dalle forniture da paesi non-Ue», con cui molto spesso non abbiamo accordi di libero scambio. E l’offerta interna è «sia scarsa che rigida».
Risultato: «Si profila il rischio di una penuria di materie prime per batterie a partire dal 2030», che potrebbe diventare un forte ostacolo.
La produzione di batterie nella Ue sta infatti crescendo in fretta e promette (almeno sulla carta) di continuare a farlo: dai 44 Gigawattora di capacità del 2020 si è saliti a 70 GWh nel 2022 e si potrebbe arrivare fino a 1.200 GWh nel 2030 «se le imprese attueranno con successo i progetti annunciati».
La Corte dei conti avanza però forti dubbi anche su questo fronte: i piani per le Gigafactory nel Vecchio continente (che «per la maggior parte» fanno capo a imprese extra europee) «potrebbero anche essere ritirati, ad esempio in risposta agli incentivi offerti dai governi di altre regioni del mondo o all’aumento dei costi delle materie prime e dell'energia».
Peraltro la competizione rischia di accentuarsi.
Benchmark Minerals vede profilarsi un forte deficit di alcuni metalli da batterie se non ci saranno investimenti addizionali entro il 2030. Servono 66 miliardi solo per il nickel raffinato, di cui le batterie assorbiranno il 32% dell’offerta contro l’attuale 15% ( il resto è impiegato nell’industria siderurgica).
A ruota, con 50 miliardi, segue il litio che secondo Bmi potrebbe addirittura rivelarsi il «principale collo di bottiglia per la crescita dell’industria delle batterie», visto che nel 2030 ne servirà «più di quanto non ne sia stato estratto tra il 2015 e il 2022».
Un altro materiale in cui si dovrebbe investire di più (e per cui l’Europa oggi dipende soprattutto dalla Cina) è la grafite, impiegata negli anodi, ossia nel polo negativo delle batterie.
Lo studio individua anche la necessità di investimenti extra per 201 miliardi di dollari in Gigafactory, in modo da salire da una capacità globale di 1 Terawattora (traguardo che sarà tagliato quest’anno) a ben 3,7 TWh a fine decennio.
Altri 93 miliardi dovrebbero invece essere investiti per le produzioni intermedie, come quelle di catodi e anodi.
Le cifre necessarie però variano molto a seconda di dove si realizzino le fabbriche e la Cina, che oggi «domina ogni segmento della supply chain delle batterie», è avvantaggiata anche su questo fronte: grazie all’esperienza ora riesce a costruire impianti a costi in qualche caso più che dimezzati rispetto ai concorrenti.
Bmi porta ad esempio due raffinerie di litio della statunitense Albemarle, con caratteristiche simili: una, in costruzione a Meishan in Cina, costerà circa 500 milioni di dollari, per l’altra in South Carolina è prevista una spesa di 1,3 miliardi.