Carbone, il declino è rinviato: consumi in ripresa persino in Europa

Carbone, il declino è rinviato consumi in ripresa persino in Europa
Pubblicazione: 28 dicembre 2020
I consumi di carbone sono di nuovo in aumento. Non solo in Asia, ma persino in Europa, dove il prezzo del più inquinante tra i combustibili fossili è quasi raddoppiato rispetto ai minimi di maggio, fino a sfiorare 70 dollari per tonnellata: un colpo di coda inatteso, in un anno segnato dalla pandemia e da un’accelerazione delle politiche in difesa del clima.

Il fenomeno rischia di non essere temporaneo, anche se il declino del carbone nel lungo periodo sembra essere comunque segnato, con segnali di retromarcia nei piani di investimento che iniziano finalmente a manifestarsi non solo nelle economie mature ma anche nei Paesi in via di sviluppo: secondo Global Energy Monitor nell’Asia meridionale e nel Sudest asiatico oggi ci sono progetti di costruzione di nuove centrali per 25 Gigawatt, addirittura l’80% in meno rispetto a cinque anni fa.

Le previsioni
Per l’Agenzia internazionale dell’Energia (Aie) la domanda di carbone dovrebbe comunque risalire del 2,6% dopo una contrazione del 5% quest’anno e dell’1,8% nel 2019, quando non c’era stato l’effetto Covid: un rimbalzo trainato soprattutto dall’Asia, ma con un contributo anche da parte di Stati Uniti ed Europa, dove i consumi sono avviati a risalire per la prima volta da quasi un decennio.

«Ci sono pochi segnali che facciano pensare a un netto declino dei consumi mondiali di carbone nei prossimi anni», avverte l’Aie, che si aspetta una stabilizzazine solo nel 2025, intorno a 7,4 miliardi di tonnellate: un livello comunque inferiore a quello del 2013, quando si era raggiunto il picco storico di 8 miliardi di tonnellate.

Le maggiori tensioni sul mercato del carbone nelle ultime settimane si sono registrate in Cina, dove la situazione è diventata critica al punto da costringere a razionare l’elettricità e il riscaldamento in diverse aree del Paese in risposta a carenze locali del combustibile.

Le mosse della Cina
Blackout programmati e ordinanze che vietano l’illuminazione pubblica notturna, l’uso degli ascensori o addirittura l’accensione delle caldaie finché la temperatura non scende sotto 3 gradi sono in vigore in tre grandi province – Zhejiang, Hunan e Jiangxi – e nella regione autonoma della Mongolia Interiore: zone dense di popolazione e di imprese, dove la forte ripresa dell’attività industriale dopo il Covid e l’arrivo dell’inverno si sono scontrati con difficoltà di approvvigionamento che almeno in parte dipendono dal braccio di ferro diplomatico che Pechino ha ingaggiato con l’Australia, il suo maggior fornitore di carbone e di molte altre materie prime.

Accusata di responsabilità nella diffusione della pandemia, la Repubblica popolare ha risposto con una guerra commerciale non dichiarata, boicottando le importazioni da Canberra. Ma gli altri fornitori non sono riusciti a compensare del tutto, soddisfando il suo fabbisogno. Uno dei maggiori esportatori mondiali di carbone, la Colombia, quest’anno ha tagliato la produzione in diverse miniere. In altri casi è stata la diversa qualità del prodotto ad ostacolare la sostituzione.

La lotta globale
Il nodo di fondo tuttavia è un altro. La verità è che la guerra contro il carbone, una delle maggiori cause di inquinamento del pianeta, ha cominciato a registrare risultati visibili sul fronte dell’offerta.

Centinaia di istituzioni internazionali, banche, fondi di investimento, società di assicurazione e persino fornitori di componenti hanno abbandonato il settore e in molte aree del mondo il calo della produzione è ormai divenuto inesorabile, perché finanziare nuove operazioni minerarie è quasi impossibile.

Negli Usa – dove dal 2014 hanno dichiarato bancarotta 39 società carbonifere – la produzione è ai minimi dal 1964: quest’anno, anche per via del Covid, c’è stato un crollo di oltre un quarto a 521,5 milioni di tonnellate, stima l’Eia.

Il problema è che i consumi di carbone non stanno frenando in modo altrettanto deciso. Al contrario, in questo periodo sono tornati a crescere quasi ovunque. Anche nell’Europa del Green Deal, che si pone obiettivi di decarbonizzazione sempre più ambiziosi (pur tollerando che la Polonia non preveda un phase out del carbone e che la Germania lo rinvii al 2038).

Ancora una volta sono le leggi di mercato a prevalere: le centrali più inquinanti hanno riguadagnato un vantaggio economico persino nella Ue, dove i diritti sulle emissioni di CO2 sono a livelli record, oltre 30 euro per tonnellata. Il gas è infatti rincarato in modo ancora più impetuoso, sia nel Vecchio continente che in Asia (sotto forma di Gnl), moltiplicando il suo valore per otto dai minimi della primavera scorsa.